L’uomo in piedi davanti alla finestra scorge la solita strada, bianca come il sale, che si perde all’orizzonte, tra il grano che deve crescere e i campi da arare. Ogni giorno, da quella cornice, i suoi occhi si rivolgono al cielo. Come se volesse sapere se domani piove o c’è il sole. In realtà per capire se domani si vive o si muore.
I polpastrelli delle mani seguono inconsciamente le venature del legno. Un brivido gli percorre la schiena fino a fargli rizzare i capelli sulla nuca. La presenza della donna dietro di lui è sempre più opprimente. Percepisce gli occhi di lei sulle sue spalle. Fissi, quasi accusatori. L’uomo sa che la situazione deve cambiare e che è l’unico che può fare qualcosa. Lei non ha… le forze, non più. Amore, odio, speranza e rassegnazione si mescolano in un sentimento agrodolce che riesce quasi a sentire sulle labbra. Lui chiude gli occhi e si concede un profondo respiro.
Quel giorno è arrivato, dice a sé stesso. Se lo ripete più volte per convincersi, mentre fuori gli uccelli lanciano il loro canto nel cielo. Si volta, ma senza alzare lo sguardo che corre irrequieto in lungo e in largo tra le assi del pavimento, la madia e la poltrona. Mai verso il letto, mai! Lui lo sa che lei è lì e lo sta fissando. Lei aspetta la sua prossima mossa, con una pazienza che ora sembra infinita. L’uomo inizia a sudare e sa che non è a causa del caldo estivo. Basta! Alza la testa di scatto, costringendosi a guardare il quadro appeso alla parete: la riproduzione di un paesaggio di Constable in un’elaborata cornice d’oro. Crede di aver urlato, ma non è così. La sua mente lo sta ingannando. Quella donna lo sta facendo impazzire, solo con la sua presenza.
Dopo aver pellegrinato senza sosta tra i meandri della mente, tra conscio e inconscio, due parole bussano alla porta della sua bocca. Quest’ultima si apre e ne esce un bisbiglio timoroso.
— Devo andarmene. — dichiara l’uomo.
La donna non risponde e lui se lo aspettava. Il silenzio totale che segue, perché anche gli uccelli smettono di cantare, conferma che è la cosa giusta da fare. L’uomo ha pensato a lungo, nei giorni precedenti, a come dire addio alla donna che ha tanto amato. Ha perso il sonno, la serenità e quasi la ragione, al sol pensiero di doverla abbandonare; ma non ha scelta. Sa che si maledirà per sempre, per la sua mancanza di coraggio. Dai suoi occhi scivolano veloci due lunghi fiumi di lacrime salate, che l’uomo cerca di fermare invano, con insensata vergogna. Prima di uscire dalla stanza lancia un’ultima occhiata alla donna. Lei non ricambia: lo sguardo rivolto alla finestra.
— Mi dispiace. Scusami! — mugugna lui.
L’uomo, prima di ricevere una risposta che non arriverà, esce e chiude la porta. Vi si appoggia contro mentre le forze lo abbandonano. Scivola lentamente verso il basso, fino a sedersi sul pavimento. Si abbandona a un pianto silenzioso, che accompagna con preghiere rivolte al cielo, in cerca di un perdono che sa di non meritarsi.
Il mattino seguente è sul ciglio della porta d’ingresso. Zaino in spalla e borse sotto gli occhi. Non sa quanto ha dormito e pianto, mentre il tarlo della vergogna scavava senza sosta dentro la sua anima. L’unica consolazione era il pensiero di andar via, lontano da lì. A cercare un altro mondo, sognando che possa esistere, che ricominciare da zero sia possibile.
Fa il primo passo, superando la soglia della casa in cui aveva vissuto fino a quel giorno. Esce alle prime luci del mattino e dice addio al cortile. S’incammina verso la campagna e non si ferma più, per molti chilometri e molto tempo. Attraversa mille strade grigie come il fumo, in un mondo di luci accese e umanità spenta. Si sente solo, sentendo di non sentire nessuno. Viaggia per mesi senza meta, a un ritmo lento ma costante. Una flemma che non aveva mai conosciuto, nemmeno durante la sua vita di campagna.
L’uomo si blocca all’improvviso in un pomeriggio di dicembre, nel mezzo di una strada. In una città di cui non conosce il nome. Non importa. Quel che conta è quell’impressione: come di aver saltato cent’anni in un giorno solo. Sente nostalgia del suo trattore, abbandonato in mezzo al campo arato a mezzo. Simbolo di una priorità che lo aveva costretto a cambiare i suoi piani, a cambiar vita. Guarda verso il cielo, con la speranza assurda di vedere la scia di un aereo. In un istante si sente spaesato e confuso, tanto da non capirci più niente. Dove sono? Dove sto andando? Si chiede, con urgenza improvvisa.
Decide controvoglia di fermarsi a riposare, in realtà con l’intenzione di sedersi a riflettere. Si sfila lo zaino dalle spalle e siede sul bordo del marciapiede, tra i ciuffi d’erba che si fanno largo nelle crepe dell’asfalto. Togliendosi il berretto, i lunghi ciuffi di capelli gli ricadono sul viso. Passa una mano sulla barba ormai lunga, che gli pizzica il viso. Sospira debolmente. Il suo sguardo si fa largo, senza interesse, tra le sagome delle auto… fino a scorgere un cane solo e confuso, come lui.
Si accorge solamente in quel momento del fastidioso rigonfiamento dato dal portafoglio. Lo estrae dalla tasca posteriore destra dei jeans, con lo stupore di chi trova qualcosa fuori posto. L’abitudine, mesi prima, lo aveva spinto a portare con sé quell’oggetto. Dentro ci sono poche banconote, ora del tutto inutili e che comunque sarebbero state insufficienti per tornare indietro, per tornare a casa. La sua attenzione cade su una fotografia di lei che gli sorride. Un sorriso scolorito, come la foto.
Per uno, tutti o nessun motivo, il mondo intorno a lui è morto, lei compresa… o forse, per assurdo, è il contrario. Sono tutti vivi, lui è morto e questo è l’inferno. Ride follemente a quel pensiero. Si ricompone. Non importa, conclude malinconico. Non c’è speranza, ma c’è una soluzione e ora ha il coraggio che gli serviva.
— Ciao amore, ciao! — piange l’uomo, intenerito dal sorriso della donna.
Estrae la pistola dalla tasca laterale dello zaino, se la punta alla tempia e preme il grilletto.
Tema: Una canzone di Luigi Tenco
Nome del concorso: I menetrelli del tram
Indetto da: Fondazione ATM